Le voci degli artisti: Matteo Sedda (di Andrea Ibba Monni)

DISCLAIMER – Il sottoscritto ha ripulito questa intervista da tutti i “penso che”, “se posso essere sincero”, “credo che”, “la mia opinione personale è che”, che l’intervistato ha premesso praticamente ad ogni risposta. Ci tengo a specificarlo perché da subito sappiate che è sinceramente e genuinamente umile. L’esempio del fatto che chi più fa la voce grossa meno vale e quanto più vivi e conosci tanto più ti rendi conto che non avrai mai la verità in tasca. Godetevelo.

Mount Olympus/24h — Matteo Sedda

Incrocio per la prima volta Matteo Sedda un paio di vite fa perché entrambi bazzicavamo quel vivaio provinciale che era la comunity LGBT cagliaritana ma non diventiamo mai amici, non ci incrociamo mai davvero. Poi mentre io scelgo di passare anche i fine settimana a lavorare a teatro (o comunque a vivere una vita alternativa alla discoteca del sabato sera e ai resoconti della domenica) lui vince a mani bassissime un concorso per Drag Queen e se ne va a Milano, fallisce in diretta su Canale 5 un provino ad “Amici” e sparisce dal mio radar per anni. Lo ritrovo sui social, sembra diverso, qualcosa è cambiato: scoprirò poi che stava iniziando a vivere davvero. Inizia a lavorare con nomi importanti e gli scrivo che da artista e da sardo mi sento orgoglioso, rappresentato, lui potrebbe tirarsela da morire ma non lo fa: abbraccia virtualmente la mia missiva e iniziamo a diventare buoni conoscenti. Appena possibile ci incontriamo, ha due occhi pazzeschi che trasmettono solo cose belle, a me viene solo voglia di abbracciarlo. Lo invito a vedere Ga’ in “Eros Nero” e viene a vederlo, mi ringrazia. Poi parte, torna e ci rivediamo ancora: i suoi occhi sempre più pazzeschi, la voglia di abbracciarlo sempre più grande. Vado a vedere il suo “The generosity of Dorcas”, le mie aspettative erano bassissime, non volevo restarci male ma a fine spettacolo mi fiondo subito in camerino e lo trovo da solo, madido di sudore, bellissimo, sfatto, iconico e dolorante, fa stretching per alleviare i dolori dati da tanto sforzo. Mi scuso dell’invasione, lui mi accoglie con due occhi ancora più pazzeschi, non lo abbraccio perché potrei romperlo stavolta tanta è la gratitudine che provo: su quel palco ha dato tanto, forse tutto.

Saprà queste cose solo quando le leggerà in questa intervista. Eccola, finalmente:

L'artiste belge Matteo Sedda évoque sa séropositivité à travers la ...

ANDREA IBBA MONNI: Perché non vivi in Italia?

MATTEO SEDDA: Ho lasciato l’Italia 4 anni fa per lavoro e adesso vivo in Belgio, a Bruxelles dove si possono incontrare diverse realtà e quindi opportunità, migliori rispetto all’Italia.

Come mai proprio Belgio, Bruxelles?

Lavoro con la compagnia Troubleyn di Jan Fabre che ha la sede ad Anversa. Bruxelles si trova a circa 30 min da Anversa e ho scelto di trasferirmi a Bruxelles perché e’ una città vivissima e fantastica al contrario di Anversa, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Ho lasciato Cagliari per andare a Milano, a studiare alla Dancehaus della Beltrami e subito dopo il diploma ho trovato lavoro da Fabre. Vorrei pero’ tornare in Italia, mi manca tantissimo ma al momento mi trovo bene a Bruxelles dove mi sono fatto degli amici che ormai sono la mia famiglia. Ovviamente non potranno mai sostituire i vecchi amici.

L’Italia è matrigna o semplicemente ci sono poche opportunità? Non ti si danno le opportunità che meriti o non ci sono proprio opportunità per nessuno?

Ce ne sono pochissime! Tantissimi talenti ma poco lavoro; quando c’è molte è quasi sempre in mano alle stesse persone ed è un peccato. Penso gli italiani siano tra i migliori performer (attori, danzatori, cantanti) che abbiamo, basta guardarsi indietro, cioè alla cultura e al passato dell’Italia e degli italiani.

Dove e come si incontrano danza e teatro ossia il corpo e l’interpretazione attraverso la fisicità?

Si incontrano nel “credere”. Per i religiosi è la fede, no? La fede può diventare intenzione: se tu credi in quello che fai e quindi fai quello che credi, puoi veramente arrivare dove vuoi: questa energia che si propaga in tutto il corpo e in tutta la mente ti rende un Dio. Ecco dove allora si incontrano danza, corpo, interpretazione. Ovviamente nel nostro mondo serve anche un pizzico di ego.

L’arte è un atto di fede?

Sì, per fortuna ma anche purtroppo: l’arte a volte ci mangia, ci consuma e soprattutto in questo periodo di difficoltà ne risentiamo.

Pandemie globali a parte, quando accade che l’arte ci faccia del male?

Un esempio è quando lavoriamo gratis o quando seguiamo dei maestri che magari non dovremmo seguire: ci lasciamo mangiare da loro ma amiamo talmente tanto quello che facciamo che diventiamo ciechi. Ecco fede e amore.

Come distingui un vero Maestro da un cattivo Maestro o da un ciarlatano?

Bella domanda… Sicuramente un cattivo Maestro è quello che ti tiene in gabbia tutto per sé e non ti fa esplorare il mondo, gli altri insegnamenti. Bisogna stare attenti al maestro che è pieno di ego, che nell’allievo vede solo se stesso, vede solo il suo bene e non il bene del suo allievo. È sicuramente difficile notarlo sia per i genitori che non hanno mai fatto parte di questo mondo che per i giovanissimi. Insomma io non penso che basti un attestato o un diploma per essere un bravo maestro: devi esserlo dalla nascita, insegnare è un dono. Ci sono tanti bravi performer che non sanno insegnare e tanti bravissimi maestri che magari non sono ottimi nel performare.

Qual è stato il momento che ti ha segnato artisticamente? Quella situazione che ti ha fatto maturare, capire meglio te, l’arte, l’arte dentro di te e e il tuo essere dentro l’arte?

Quando ho scoperto di essere HIV positivo ho potuto comunicarlo attraverso l’arte: il teatro è diventato una necessità di vita o di morte. Sai che mai dovessi finire di fare teatro sarei contento?

Tu sei pazzo!

È che ho raggiunto il motivo principale, ho risposto alla mia domanda: “perché lo fai: perché fai teatro?”

Giuro che non volevo chiedertelo ma adesso sono curioso. Qual è la risposta?

Il teatro mi fa riconnettere con il passato, mi fa tornare a quando ero bambino e allo stesso modo mi proietta verso il futuro. Quando ho scoperto di essere HIV positivo mi sono riconnesso con la mia parte infantile in tutti i suoi aspetti e la mia voglia di fare teatro è nata quando ero bimbo. Allo stesso tempo sento il tempo come un qualcosa di prezioso e unico perché oggi ci siamo, ma domani non lo sappiamo.

Insomma è cambiata l’urgenza espressiva?

Esatto, mi chiedo sempre “cosa sto facendo adesso? È cosi importante da doverlo fare?” Quando faccio teatro tutti questi quesiti si connettono ed ecco perché cerco anche di trovare dei temi alle performance che faccio che rispecchiano questo modo di vedere le cose.

Come se fosse facile, vero?

È molto difficile da fare visto che devo anche vivere facendo teatro quindi molte volte devo dire di sì a lavori solo perché ho bisogno di mangiare e mi capita di non essere sempre soddisfatto al 100% dal momento che ho ristretto i miei gusti. Quando vado a teatro da spettatore mi annoio facilmente se riconosco che sono finti. LHIV ha cambiato il mio modo di vedere il mondo e quindi il mio modo di vedere il teatro. Per me è tutto connesso… e ritorniamo a bomba al discorso della fede.

Posso scrivere che aver contratto l’HIV sia stata una fortuna in questo senso e credo solo in questo senso?

Assolutamente sì ma è stata una fortuna in ogni senso possibile perché mi ha cambiato la vita in positivo.

Ho visto “The generosity of Dorcas” e ho assistito a uno spettacolo che ha rivelato tanto di te attraverso l’arte del teatrodanza. Ma com’è stato affidare le tue memorie, le tue urgenze, le tue paure, le tue speranze, i tuoi pregiudizi a un’altra persona, Jan Fabre?

Adoro lavorare con Jan perché entro in uno stato fisico e mentale estremo: mi sono fidato ciecamente perché ci conosciamo ormai da tanto e quindi è bellissimo lasciarmi andare insieme a lui. Il problema arriva quando le prove sono finite e iniziano gli spettacoli: ti devi lasciare andare ma senza nessuno, sei da solo con te stesso e a farti compagnia ci sono solo la paura e l’adrenalina. Ma non le devi controllare o distruggere, devono diventare tue amiche, devi prenderle per mano. Solo in quel modo puoi veramente lasciarti andare, soprattutto per quanto riguarda i lavori estremi come quelli di Jan: fisicamente e mentalmente estremi.

Jan Fabre racconta Mount Olympus – To Glorify The Cult of Tragedy ...

Andrea Ibba Monni